Tempi duri


Un gustoso racconto di Gianni Allegro sulla vita della banda.
TEMPI DURI
di Gianni Allegro

Certo erano tempi duri, quelli. Tempi in cui la guerra si portava via molte giovani vite e in cui bisognava saper lottare per sopravvivere. Eppure, anche se mancava tutto, non ci si lamentava di nulla. Era così la vita, o almeno così era la mia vita e quella di tanti che conoscevo, e quindi mi sembrava normale che le cose andassero in questo modo. Era sicuramente la forza della gioventù a permettermi di sopportare tante fatiche e a farmi trovare anche il tempo e la voglia di divertirmi, di suonare nella banda nel paese.
La giornata incominciava presto, alle cinque, con la mamma che mi buttava giù dal letto. Una rapida lavata alla pompa nel cortile, un caffelatte con il pane vecchio, un sapore che oggi non si trova più (ma sarà stato il latte con gli ‘occhi’ di grasso o il sapore della giovinezza?), e poi via in bicicletta da Occimiano alla volta di Villanova, dove mi aspettava la riseria. Era circa un’ora di pedalata con strade che non erano nemmeno lontanamente paragonabili a quelle di adesso, per cui mi capitava talvolta di bucare una gomma e di dovermela fare a piedi spingendo la bicicletta a mano. Ma quando tutto andava bene e il tempo era buono, io e i miei compagni di lavoro riuscivamo addirittura a dormire pedalando, tanto era il sonno arretrato e tanto era ben conosciuta la strada. Credevamo che la bicicletta potesse trovarla da sola, e quindi ci lasciavamo cullare dal rumore della catena che sfregava sul carter e finivamo in una specie di dormiveglia in cui scorrevano, tra il sogno e il ricordo, le emozioni della serata precedente. Poi immancabilmente accadeva che la ruota anteriore finisse in un buco o in un tombino (i tombini di quei tempi erano delle piccole voragini) e il contraccolpo ci riportava alla realtà della giornata lavorativa che stava per incominciare, con un po’ di tristezza e di rassegnazione per quel che ci attendeva.
Si trattava di portare sacchi di riso del peso di 60 chili, sotto gli occhi attenti dei sorveglianti, su per due rampe di scale dal cortile fino ai magazzini della riseria. Su e giù, giù e su per 6 giorni alla settimana e per 9-10 ore al giorno, interrotte soltanto da un’oretta di pausa per consumare il frugale pasto che la mamma aveva messo nel ‘taschét’, con tanto pane e poco companatico.
Ma poi, com’è e come non è, le ore passavano e la fine del lavoro arrivava e per noi, esausti ma felici, iniziava il tempo da dedicare alle esigenze della nostra maltrattata giovinezza. E allora saltavamo sulla fida bicicletta, che nonostante la fatica del lavoro sembrava più leggera che al mattino, e tornavamo di buona lena a casa, per lavarci e vestirci di pulito, in modo da poterci presentare in abiti dignitosi alle morose. A quei tempi con le ragazze si parlava soltanto (‘parlare’ a una ragazza significava già una mezza promessa di matrimonio), ed era un evento da segnare sul calendario se qualche volta si riusciva a rubare un timido bacio, ma tanto bastava per farci sentire orgogliosi di noi stessi e provetti ‘latin lover’.
Il più delle volte queste ragazze le avevamo conosciute a Villanova, in riseria, con qualche sguardo e qualche parola scambiati nella pausa pranzo. E allora ecco che dopo il cambio d’abito si inforcava di nuovo la bicicletta per ritornare là, insieme agli amici, per riscaldare il cuore con dolcezze a volte soltanto immaginate ma comunque custodite a lungo nella memoria.
Ritornavo a casa con il buio (la quarta ora di viaggio nella giornata), ormai sfinito nel fisico ma rasserenato, trovando ancora la forza tra una pedalata e l’altra di scherzare e condividere con gli amici le speranze per il futuro. A casa mi attendeva il letto, per il giusto anche se breve riposo in vista di un nuovo giorno di duro lavoro.
Quando poi arrivava la domenica, potevo finalmente suonare nella banda. L’orgoglio di farne parte, condiviso con alcuni amici, compensava di tutte le fatiche sostenute per imparare a leggere la musica e di quelle che richiedevano gli spostamenti, sempre a dorso di bicicletta, da un paese all’altro con lo strumento a tracolla. Mi piaceva marciare in divisa, intonando il nostro allegro repertorio, per cogliere lo sguardo ammirato della gente e soprattutto delle ragazze che ci venivano ad ascoltare e vedere. Questo mi ripagava di ogni sacrificio. Piaceri semplici ma profondi, che forse molti giovani di oggi stentano a riconoscere ed apprezzare. Le bande di oggi sono un po’ in crisi perché il numero di quelli che sono costretti ad abbandonare per motivi di età, di lavoro o di famiglia non è sempre compensato dai nuovi arrivi. Ma la musica esisterà sempre, come tutte le cose autentiche, e con essa le bande musicali e coloro che amano suonarla, e sono sicuro che prima o poi i giovani torneranno a scoprirla.

(da un racconto di Giuseppe Anarratone ‘Rodoni’)